ADISTA: Lavorare senza padroni. Dalla RiMaflow l’esempio di un’alternativa possibile

rimaflowadmin 19 Novembre 2014 0

Rimaflow fabbrica_recuperata621 414

Di Claudia Fanti -Da Adista n. 42/14

In tempi di disoccupazione di massa, di licenziamenti, delocalizzazioni, chiusure di stabilimenti e contratti sempre più precari, è diventata, in poco più di un anno e mezzo, il simbolo di un’alternativa possibile: è la RiMaflow, la “fabbrica senza padroni”, occupata da un gruppo di lavoratori e lavoratrici licenziati dalla Maflow, multinazionale della componentistica per le auto, i quali, dopo la chiusura dello stabilimento di Trezzano sul Naviglio e il trasferimento della produzione in Polonia, hanno deciso di riappropriarsi dell’area industriale – 30mila metri quadrati di cui 14mila coperti – dando vita a una cooperativa onlus per il recupero e il riciclo di materiali di scarto, in particolare apparecchiature elettriche (per saperne di più si può consultare il sito www.rimaflow.it). Un progetto di riconversione ecologica più che mai significativo a fronte di una cronica incapacità, anche da parte della sinistra, di conciliare un modello ecocompatibile con la soddisfazione delle necessità della popolazione, a cominciare dalla tutela dei posti di lavoro.

È così, grazie alla lotta degli operai che non hanno voluto arrendersi, che è nata la RiMaflow, dove “Ri”, spiegano i lavoratori, sta «per tutte le cose belle che vogliamo rappresentare che cominciano così (Rinascita, Riuso, Riciclo, Riappropriazione, Rivolta – il debito -, Rivoluzione)» e «anche per dire “ecco di nuovo la Maflow!”, “è ancora Maflow!”, pensavate fossimo finiti, invece no!». E la fabbrica è diventata anche la sede di un Gruppo di acquisto solidale, Fuorimercato, che collabora tanto con i produttori locali quanto con quelli calabresi di Sos Rosarno, l’associazione che combatte caporali e ‘ndrangheta offrendo speranza e opportunità di riscatto a lavoratori italiani e migranti. E ha avviato un Mercatino dell’usato, con circa 70 espositori permanenti, in massima parte disoccupati e/o pensionati al minimo, organizzando anche diverse attività artigianali per creare nuove opportunità di lavoro. Non è un caso, insomma, che João Pedro Stédile – leader di quel Movimento dei Senza Terra che deve proprio alla pratica dell’occupazione tutto ciò che ha conquistato nel corso dei suoi 30 anni di vita – abbia battezzato la fabbrica, durante la sua visita a Milano lo scorso primo novembre, «l’ambasciata del Mst a Milano». E non è un caso che la RiMaflow abbia ricevuto anche un altro importante riconoscimento: l’invito a partecipare all’Incontro dei movimenti popolari in Vaticano, tra altre organizzazioni del settore informale e dell’economia popolare, a proposito del quale papa Francesco ha detto, nel suo discorso ai movimenti, che «questo, oltre che lavoro, è poesia!».

Ma la “fabbrica senza padrone” ha bisogno dell’aiuto di tutti per fare il salto di qualità che permetta ai lavoratori di vivere dignitosamente: dopo aver ripristinato gran parte dell’impianto elettrico industriale, c’è ora bisogno di un grande impianto ad aria compressa, indispensabile per l’avvio della produzione (servono almeno 15mila euro, di cui ne sono stati raccolti quasi la metà: chi vuole offrire un contributo può andare alla pagina web www.produzionidalbasso.com/project/rimaflow-vuole-vivere).

È di tutto questo che abbiamo parlato con l’ex senatore di Rifondazione Comunista Gigi Malabarba, presente all’incontro dei movimenti popolari in Vaticano come rappresentante della RiMaflow, nell’intervista che qui di seguito riportiamo. (Claudia fanti)

Una strada praticabile

Intervista a Gigi Malabarba

All’incontro dei movimenti popolari in Vaticano “Terra, Labor, Domus”, c’eri anche tu, in rappresentanza della RiMaflow. Che valutazione puoi offrire di questa singolare esperienza?

È stata una esperienza interessante e molto istruttiva. Nel corso degli anni, soprattutto in relazione alle iniziative di solidarietà con le lotte di liberazione in America latina, avevo avuto occasione di incontrare militanti legati alla Teologia della Liberazione, alcuni dei quali persino impegnati in organizzazioni guerrigliere marxiste, per cui l’impegno rivoluzionario di molti cristiani e cristiane mi è apparso naturale e, se vuoi, molto conseguente. Che le porte del Vaticano si aprissero per ospitare un incontro internazionale dei movimenti popolari la ritengo però una novità, assai apprezzabile.
Indipendentemente dalle ragioni che hanno motivato papa Bergoglio e i suoi collaboratori, si tratta obiettivamente di un riconoscimento delle lotte per il lavoro, la terra e la casa e di uno spazio assai importante per tutte e tutti coloro che nell’ambito della Chiesa sono impegnati nei movimenti sociali. Forse non si tratta di una novità in assoluto: il Concilio Vaticano II, Medellín e Puebla erano già parte della storia recente; ma di certo è così che appare, dopo i pontificati di Woityla e di Ratzinger…
Come RiMaflow non ne possiamo che trarre un incoraggiamento. Non credo di mettere in difficoltà nessuno se dico che, incontrando un rappresentante della Caritas, questi ci ha detto: “Be’, dopo quel che vi ha detto il papa, che problema volete che ci sia per noi a collaborare con una fabbrica occupata?”.

Come nasce e si sviluppa la RiMaflow? Quali obiettivi persegue?

La Maflow operava nel settore automotive e funzionava bene finché il fondo finanziario che l’ha acquisita non ha accollato alla parte produttiva le perdite (più o meno volute) del settore finanziario. Dopodiché sono seguite l’amministrazione straordinaria, la gara d’asta, vinta da un polacco interessato solo a marchio e commesse Bmw, e la conseguente chiusura nel dicembre 2012, che ha lasciato a casa 330 lavoratori e lavoratrici. In mancanza di altri sbocchi lavorativi, e sulla base dell’esperienza di lotta contro la chiusura, che aveva visto anche un periodo di semi-occupazione dello stabilimento tra il 2009 e il 2010, un gruppo ha deciso di non rassegnarsi al licenziamento ed è passato all’occupazione, per tentare di rimettere in funzione la fabbrica senza padrone. Partendo dal presupposto che per noi si trattava di una sorta di “risarcimento sociale” per il licenziamento – roba nostra, per capirsi – da cui ripartire senza impegnare il nostro tfr o tutti gli ammortizzatori e magari indebitarsi per pagare un affitto per avviare un’attività. Che poi è quello che ci consigliavano la Lega delle Cooperative o i professori della Bocconi: diventate imprenditori e assumetevi il rischio d’impresa. Noi abbiamo risposto: il nostro capitale da investire è la nostra forza lavoro; certamente rischiamo, ma intanto ci prendiamo quel che è nostro.
E così è nata RiMaflow, la rinascita della Maflow. E il “ri” è diventato il nostro suffisso obbligatorio, ben impresso su un grande striscione “programmatico” affisso sui cancelli: ri-uso, ri-ciclo, ri-appropriazione, ri-volta il debito, ri-voluzione. Perché è in direzione di una produzione indirizzata in senso ecologista che ci stiamo muovendo, che nel nostro piccolo rappresenta sul serio una rivoluzione: recuperare dagli apparecchi elettrici ed elettronici, ma anche dal legno e da altre cose la materia prima da rimettere nel circuito produttivo. È un bisogno sociale a cui vogliamo rispondere e fa bene al pianeta. Ma siccome avevamo bisogno di risorse per poter risistemare 14mila mq di capannoni su un’area grande il doppio e comprare i macchinari, ci siamo inventati una “Cittadella dell’altra economia”, con un mercato dell’usato e un mercato agricolo, che comprende la logistica per i produttori biologici del Parco Sud Milano, laboratori artigianali, bar-ristorazione, un ostello, attività culturali… Ora, oltre ai primi 20 soci, c’è un altro centinaio di disoccupati che vive nella Cittadella. Contiamo nei prossimi sei mesi di passare da un rimborso a un vero salario pieno, contributi compresi. Lavoro, reddito, dignità e autogestione sono le altre nostre parole.

Esistono diverse altre esperienze di autogestione in Italia e nel mondo, a cominciare dalle fabricas recuperadas argentine. Esistono collegamenti tra le diverse esperienze? Quali potenzialità e prospettive può avere questo movimento?

Sono proprio le fabricas recuperadas argentine che ci hanno ispirato. È un tentativo di rispondere alla crisi, non certo “la” soluzione. Come in Argentina, noi ci siamo trovati di fronte al “che fare” dopo la chiusura della fabbrica e non abbiamo accettato che questa fosse la fine di tutto. E con l’autogestione abbiamo individuato il modello migliore per uscire dalla logica di sfruttamento che ci aveva portato ad essere considerati uno “scarto”, come una qualsiasi merce. Un concetto usato, assai significativamente, anche da papa Bergoglio. Noi sappiamo che in una società dominata dalle leggi del Mercato non è possibile far vivere esperienze “fuori mercato” se non all’interno di un quadro di conflitto sociale che conquisti nuove regole. Per questo abbiamo chiamato “autogestione conflittuale” la nostra esperienza, altrimenti c’è il rischio di adattarsi alle regole del padrone, il quale concepisce l’attività di una cooperativa come strumento di auto-sfruttamento in una concorrenza al ribasso nei confronti degli altri lavoratori. Vogliamo forse nasconderci che questa è la realtà della gran parte delle cooperative nate in questi ultimi anni, malgrado il richiamo al glorioso movimento delle società di mutuo soccorso di fine Ottocento?
Per questo RiMaflow e le altre esperienze analoghe non devono restare sole, ma devono collegarsi tra loro e lottare nel più generale mondo del lavoro per ottenere un riconoscimento giuridico, un’assegnazione del luogo in cui operano, che è l’unica modalità per consentire un’attività regolare di produzione. Pur apprezzandone l’esistenza e la positività, non possiamo essere un centro sociale: vogliamo essere una fabbrica recuperata che produce reddito e apre una via verso una nuova economia.
A gennaio abbiamo partecipato al primo incontro europeo delle fabbriche recuperate, dal titolo “L’economia dei lavoratori”, all’interno della Fralib di Marsiglia, una fabbrica occupata e recuperata, e a luglio del 2015 saremo in Venezuela per l’Incontro mondiale che si terrà anch’esso in una fabbrica recuperata. L’obiettivo è creare un movimento di imprese senza padroni, non solo fabbriche.

Cosa chiedete al riguardo alla politica italiana?

Mi verrebbe da rispondere “niente”, perché questa politica è contro i lavoratori e gli sfruttati. Tutta quanta, spiace dirlo, anche se i gradi di responsabilità sono diversi. La politica va ricostruita dal basso. Sarà forse per questo che poi i movimenti si riuniscono altrove… Le istituzioni, però, sono un interlocutore e noi da queste dobbiamo ottenere, ad esempio, una legge che dica: se un padrone vuole andarsene, magari dopo aver ricevuto sussidi pubblici, se ne vada pure, ma lasci qui fabbrica e macchinari se i lavoratori vogliono rimettere in funzione l’attività. Si tratta del risarcimento sociale per il licenziamento subìto.
Impossibile? Le fabbriche argentine dimostrano che è possibile. Governi locali o nazionali o sentenze dei tribunali hanno dovuto riconoscere le nuove situazioni, dettando norme tali da consentire la continuità della produzione nelle fabbriche occupate, permettendo per esempio ai lavoratori di entrare in possesso degli impianti e di riprendere e innovare la produzione. Ma solo perché c’è stata una lotta che ha imposto tutto ciò. Da allora, anche governi progressisti latinoamericani come quello venezuelano e quello boliviano hanno sostenuto tale movimento come un progetto economico. Nell’Europa liberista oggi sembra una meta irraggiungibile. Vedremo. Noi stiamo cercando di dimostrare che è una strada praticabile, se ci sarà il sostegno più largo di tutte e tutti coloro che combattono questo capitalismo in crisi e credono in un’alternativa. Abbiamo lanciato una campagna di sostegno che abbiamo chiamato “RiMaflow vuole vivere”, con il grande apporto del MST brasiliano e di João Pedro Stédile in particolare. Sul nostro sito www.rimaflow.it si possono trovare tutte le modalità per partecipare. Lottiamo insieme, riusciremo a cambiarlo questo mondo!

Leave A Response »

You must be logged in to post a comment.